201703.29
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Porto, decisive le cifre nel processo d’Appello

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Retroscena: il castello accusatorio smontato dal consulente nominato dal pm nell’inchiesta parallela sulla bancarotta

Il processo in Appello per i fatti del porto, nel quale i dieci indagati, compreso Francesco Bellavista Caltagirone, hanno visto confermata l’assoluzione, è stato combattuto soprattutto sulle cifre sviscerate in aula, risultate decisive. I conti li ha snocciolati Valter Oldrà, economista e consulente tecnico dal pm Alessandro Bogliolo nel procedimento penale relativo alla bancarotta della Porto di Imperia Spa in relazione al quale lo stesso pm ha presentato al gip richiesta di archiviazione, e ha confutato i calcoli fatti all’epoca da Fiamme Gialle e Procura, smontando il castello accusatorio. Per Caltagirone era stato calcolato un guadagno di oltre 444 mila euro a fronte delle briciole spettanti alla città di Imperia. «E’ valore di mercato – scrive Oldrà – che può considerarsi stima prudente del corrispettivo futuro e come tale solo sperato, e incerto fino al realizzo (eventuale), ottenibile, a lavori finiti, dalla vendita o affitto dei diritti sulla totalità delle opere a mare e a terra negli anni di durata della concessione demaniale».
Un passaggio fondamentale che mette in rilievo la sproporzione tra le cifre ipotizzate dai detective e quelle poi messe sul piatto concretamente, e che è stato sottolineato nel corso delle arringhe difensive dagli avvocati milanesi Diodà, Calori e Luppi, tutelanti Caltagirone e i principali collaboratori.
Sempre Oldrà demolisce uno dei capisaldi dell’accusa, ovvero il contratto secondo cui il 70 per cento dei profitti andava ad Acquamare, il restante trenta al Comune attraverso la Porto Spa. Gli investigatori l’avevano considerato una sorta di accordo capestro per la città, a tutto vantaggio del privato. Scrive ancora Oldrà: «…si giunge a un valore di mercato delle opere portuali, a lavori finiti, nell’ordine di 426 mila euro più Iva. Detto valore si pone in linea con la ripartizione complessiva del 30% a Porto di Imperia e del 70% ad Acquamare. Ripartizione che, a sua volta, siccome esistono contratti del genere “do ut facis” (ti do affinchè tu faccia, ndr) lascia intendere che la percentuale del 70% attribuita ad Acquamare appaia in linea con la percentuale in uso in altre operazioni immobiliari dello stesso genere contrattuale».
Significativo l’assunto emergente nelle pagine 411-415 della relazione tecnica di Oldrà: «Le società coinvolte nella commessa dei lavori delle opere portuali se considerate non atomisticamente ma nel collegamento negoziale, risultano aver dato luogo a una cosiddetta operazione di project financing, fenomeno contrattuale globale inteso come mezzo per ripartire il rischio connesso al progetto, e non necessariamente quale strumento per finalità illecite».
Hanno detto i legali milanesi: «In relazione a uno dei capi d’imputazione, l’abuso d’ufficio, nonostante fosse già prescritto, la Corte d’appello, confermando la sentenza assolutoria di 1° grado, ha riconosciuto come lecita tutta la procedura amministrativa all’epoca seguita circa il rilascio della Concessione demaniale marittima, l’ingresso di Acquamare nella compagine sociale di Porto di Imperia e l’affidamento dei lavori di costruzione ad Acquamare».
Inoltre, stando agli avvocati Diodà, Calori e Luppi, la «riserva mentale contestata ai 4 imputati del gruppo Acquamarcia, non sarebbe esistita: i nostri consulenti hanno accertato che sono stati spesi 46 milioni per la realizzazione delle opere a terra costruite prima degli arresti del marzo 2012, a dimostrazione del fatto che Caltagirone voleva finire il porto».